LA MIA ANCA SINISTRA – di Gaby Yaron

LA MIA ANCA SINISTRA – di Gaby Yaron

(Foto: Archivio IFF, Gaby Yaron, Trainer del Metodo Feldenkrais, mentre insegna agli studenti,  Amherst 1981)

All’inizio di un seminario sono solita chiedere ai partecipanti se hanno difficoltà o problemi, o se vogliono migliorare alcune funzioni. I meno timidi mi rispondono “sento tensioni alla schiena”, “le mie spalle” oppure “ho male al collo”. Quando si è creato il contatto, rotto il ghiaccio, le persone si sentono più a loro agio e se qualcuno comincia a parlare dei suoi problemi personali, gli altri seguono.
Per quanto possibile, cerco di condurre il mio insegnamento in modo da permettere a coloro che hanno dei problemi di trovare le loro proprie soluzioni. Mi astengo dal dare loro delle ricette (è ciò che la gente si aspetta) del genere: “questo movimento andrebbe bene per il suo ginocchio” o “per la sua anca”. Osservo soltanto il loro modo di muoversi, e durante la lezione traggo profitto dal loro comportamento, da ciò che può indicarmi un miglioramento, più mobilita o meno dolore.
In generale tutto il gruppo nota quando c’è un miglioramento e dà il proprio apporto.

Osservare come il movimento cambia negli altri, mentre noi stessi eseguiamo il movimento, è un’occasione meravigliosa di apprendimento. Spesso interrompo la lezione per alcuni minuti e chiedo a una parte del gruppo di guardare ciò che fa l’altra parte.

Durante un seminario in Germania, Paul, un uomo di 50 anni, è arrivato nella sala zoppicando. Ha fatto molta fatica a mettersi al suolo. Non poteva piegare il ginocchio sinistro né sedersi a terra. Ho cominciato col chiedere a coloro che volevano farlo di dirmi perché erano là e che cosa si aspettassero da quello stage.
Dopo aver ascoltato le lamentele di alcuni e i desideri di altri – migliorare il proprio modo di lavorare, la propria. esecuzione pianistica o alleviare i dolori – Paul fu incoraggiato a esprimersi: “la mia anca sinistra è bloccata chirurgicamente da 30 anni”.

Le protesi dell’anca che permettono di conservare la mobilita non erano ancora conosciute e il solo modo di togliere il dolore era di fissare l’anca in una posizione che permettesse al paziente di stare in piedi e seduto su una sedia alta.

In posizione seduta, Paul aveva la scelta tra mantenere la gamba rigida o piegare il ginocchio e far scivolare il piede sotto la sedia; questo movimento era del tutto inconsueto per lui.

Non mi è occorso molto tempo per rendermi conto che attraverso la sua anca rigida, egli aveva sviluppato uno schema globale di rigidità: il ginocchio, la caviglia, la gabbia toracica, la spalla e il collo dalla parte sinistra. Il suo sistema nervoso aveva fissato tutto il lato sinistro per proteggere l’anca.

In questo stesso seminario c’era una donna, Margaret, anch’essa con un’anca rigida, fissata naturalmente dall’artrosi. Il suo cervello aveva fissato quest’anca dolorante in modo da preservare quel poco di cartilagine che rimaneva, ma questo non coinvolgeva la mobilità del suo ginocchio, delle costole, delle spalle o del collo. Tutte queste parti si muovevano abbastanza per permetterle di funzionare piuttosto bene, malgrado la condizione dell’anca.

Osservavo tutto il gruppo e potevo vedere le differenze di schema in occasione dello stesso movimento. Introducendo pian piano delle variazioni, il gruppo diventò più omogeneo. L’unica persona che manteneva le medesime difficoltà era Paul.

Ad un certo punto, i partecipanti si trovavano distesi sulla pancia, con le ginocchia piegate, le piante dei piedi rivolte al soffitto. Era ovviamente una posizione che non coinvolgeva l’anca e tuttavia egli non piegava il ginocchio sinistro. Gli chiesi se aveva capito la mia proposta, la sua risposta fu: “la mia anca sinistra da 30 anni è fissata chirurgicamente”. E per tutto il resto della lezione, continuò a ripetere ancora: “la mia anca sinistra…”. Tuttavia in posizioni e movimenti inconsueti, senza neppure rendersene conto, Paul piegava il ginocchio e la caviglia. Il processo d’apprendimento aveva luogo.

Presto si rese conto che poteva eseguire alcuni movimenti senza il suo “compagno fedele”, il dolore.

Il seminario durava cinque giorni e il terzo giorno Paul ricevette una lezione di Integrazione Funzionale, durante la quale gli diedi un messaggio molto chiaro: anche se era incapace di muovere l’anca, poteva utilizzare la gamba prendendo la forza dalla schiena. Rinforzavo questo messaggio collocandolo in differenti posizioni.

Alla fine della lezione, in piedi, quando gli chiesi di camminare all’indietro, egli lo fece così bene che la sua amica esclamò: “Paul, non zoppichi più!” ma, dal suo sguardo, vidi che non poteva ancora sentire il cambiamento, quindi cambiai rapidamente discorso. Capivo che, zoppicando da 30 anni, il suo sistema non era in grado di registrare un cambiamento così rapido.

L’indomani mattina arrivò nella stanza con un passo più spedito e più elegante del solito, ma ognuno di noi si astenne dal fare commenti. Fu soltanto alla fine della giornata che mi disse: “Gaby, devo confessarle qualcosa. Ieri quando la mia amica mi ha detto che non zoppicavo più, non le ho creduto. È soltanto adesso, ventiquattrore dopo, che mi rendo conto di camminare diversamente e volevo ringraziarla”.

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Dal bollettino AIIMF “Teoria e prassi del Metodo Feldenkrais® – articoli, interviste, esperienze” 2001. Traduzione dal Bulletin APMF, Automne 1995 di Gina Cecalupo, Insegnante Feldenkrais, socia AIIMF.

 

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